Ovvero: Cerchiamo ovunque l’assoluto ma troviamo sempre e solo cose…
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J J Grandville, Les fleurs animées, Paris, 1830 |
«Ogni colore dona un particolare stato d’animo» e «una superficie azzurra appare arretrare» aveva insegnato Goethe e generazioni di giovani tedeschi si erano messi a vagabondare per monti e per valli verso quell’azzurro infinito, colti da un’aspirazione – aimè! – dolorosa, perché l’infinito ha, effettivamente, la bizzarra peculiarità di essere irraggiungibile e di ritirarsi costantemente. Ma i Romantici sono irresistibilmente e funestamente attratti dalle cose naturali “cedevoli e molli”. Anche scivolare tra i flutti azzurri e morire annegati può essere di moda, meglio se giovani e belli e, conseguentemente, innamorati. Elegantemente Goethe aveva scritto: «Si levò una ninfa dall’acqua… Ella gli parlò, e cantò per lui… – Non ti attrae il cielo profondo, l’umido azzurro trasfigurato? Non ti alletta la tua stessa immagine nell’eterna rugiada? – L’acqua mugghiava, e si gonfiava, lambendogli il nudo piede; il suo cuore era gonfio di struggente nostalgia, come al momento del saluto dell’amata. Ella gli parlò, e cantò per lui: allora per lui fu la fine. Appena egli si immerse ella quasi lo trascinò ed egli non fu mai più rivisto.»
Per Heinrich von Ofterdingen, cantore tedesco medievale, il momento di mettersi in viaggio verrà dopo aver sognato un fiorellino blu, un nontiscordardimé. Forse per il volto della fanciulla che sembrava comparire tremulo all’interno della sua corolla? Le immagini si sovrappongono e si confondono. «Nessun tesoro potrebbe risvegliare in me una così indicibile avidità. Lungi da me ogni altra brama: ardo solamente dal desiderio di vedere il fiore azzurro. Mi torna in mente incessantemente e non posso scrivere d’altro o ad altro pensare. Una sensazione come questa non l’avevo mai provata: è come se prima avessi solamente sognato o anzi piuttosto se mi fossi addormentato in un altro mondo. Infatti, nel mondo in cui vivevo, chi si sarebbe preoccupato di fiori? Né ho mai sentito di una così strana passione per un fiore…» Alla ricerca della ragazza-fiore va dunque ramingo per il vasto mondo.
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Hans von Kulmbach, Ritratto di giovane uomo, 1508, (Metropolitan Museum of Art, New York). Sul retro del quadro l’immagine di una giovane donna che fa una coroncina di nontiscordardimé. Il cartiglio recita: lego con i nontiscordardimé. |
Heinrich von Ofterdingen fu pubblicato postumo, perché anche Novalis morirà presto, giovane e bello, “annegato” nella tisi, la malattia del secolo. Da qui in poi del dolce e leggermente mortifero olezzo del fiore blu non ci si libererà più. Affiora e ricompare in infinite trame e rivoli di poesia fino ad oggi. Se ne reinventano leggende falsamente medioevali che ne spiegano il nome: «Un cavaliere e la sua dama passeggiavano lungo un fiume; il cavaliere, nell’atto di raccogliere dei fiori azzurri da offrire all’amata cade nei flutti. Annegando la implora: Vergisz mein nicht!» Non ti scordar di me.
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Cicely Mary Barker, Flower Fairies of the Garden, London, 1944 |
Possiamo dunque parlare di un suo uso in cucina? Ma, per favore! L’idea di mangiarlo suona sacrilega. «No, non raccoglierlo: è un nontiscordardimé!» Come se si stesse profanando molto, molto vagamente qualcosa di indefinito (la memoria dei morti, l’amore, l’amicizia?). Le storie hanno radici lunghe e profonde e si radicano nell’anima ostinatamente attraverso i tempi, ridotte in frammenti di tradizione che si compongono e ricompongono come segmenti di DNA. Anche minuscoli incomprensibili tabu contribuiscono a farci imparare inconsapevolmente il rispetto per cose ben più importanti.
Eppure, invece sì, ora parleremo di come si mangia.
Nel nontiscordardimé, a dire il vero, da mangiare ce n’è poco, ma i contadini friulani, da bravi e concreti montagnini, non stavano a badare a tante sottigliezze, e di tutte l’erbe facevano un fascio. In tutto quarantadue erbe selvatiche ma c’è chi dice cinquantasei, non importa, comunque molte – tra le quali anche il nostro nontiscordardimé –, raccolte a primavera e cucinate tutte insieme per preparare il pistic. Questo sta a significare che i contadini friulani di sottigliezze ne avevano eccome, per esempio la competenza per riconoscere questa cinquantina di erbe selvatiche commestibili che spuntano in primavera e dare a ciascuna un nome. Alle erbe vanno aggiunti i funghi e altri vegetali mangerecci più le essenze per costruire case e oggetti, le fibre per i cesti e le funi e i tessuti e così via così via, una conoscenza della botanica locale veramente impressionante. Individuare con precisione le piante selvatiche faceva parte dell’economia della sopravvivenza. Un’esistenza condotta a confronto non con paesaggi infiniti e intangibili ma con territori concreti vissuti a capo chino e con occhio aguzzo. Con tante “cose” utili (e usabili) dentro. Tutto un’altro modo di percepire il mondo.
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Georg Christian Oeder, Flora Danica, Kopenhagen, 1761-1883 |
Bibliografia
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Mie le traduzioni