Ovvero: Dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio…
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Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, illustrazione di Attilio Mussino, Firenze, 1911 |
Ho conosciuto la misteriosa ghiottoneria leggendo Pinocchio. Il rosolio. Non mi era affatto chiaro di che si trattasse – me lo immaginavo come una gelatina rosa molto liquida, forse era un liquore alle rose denso come olio. Esisteva ancora? Era un’invenzione di Collodi? Negli anni ‘60 non era più di moda ed era sparito dalla circolazione. Troppo dolce, troppo “da vecchia signora”. Quando Collodi scriveva invece era popolarissimo. Il migliore si produceva a Torino. Ma che roba era?
Dunque, intanto il rosolio non deve la sua origine alle rose e neanche il nome, ma ad una piantina singolare che cresce in luoghi umidi e muschiosi nelle aree fredde e temperato-fredde, oggi chiamata Drosera. È una rara e delicata pianta carnivora con le foglie a forma di cucchiaio ricoperte da lunghe ciglia tentacolari porporine che secernono gocce zuccherine e vischiose che attirano gli insetti e li catturano. Allora le ciglia, sensibilissime, si richiudono su di sé imprigionandoli. Così la pianta può, lentamente, digerire i malcapitati.
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La raccolta della rugiada, Mutus liber, La Rochelles, 1677 |
Nel Rinascimento la passione per l’alchimia è un delirio collettivo. Naturalisti e ciarlatani, principi, monaci e porporati si danno un gran daffare intorno a fornelli ed alambicchi: distillano erbe, preparano soluzioni, trasmutano metalli. Dai metalli vili cercano di produrre l’oro. Non staremo qui a filosofeggiare su quanto ideale fosse l’impresa. Dopo un esordio italiano presso la corte medicea con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, la tradizione ermetico-magica percorre non come un fremito ma come un terremoto tutta l’Europa rinascimentale. La mappa dello sviluppo della cultura alchemica si sovrappone presto a quella delle guerre di religione e della Riforma protestante. L’Inquisizione della Chiesa romana respinge la “perniciosa magia” al di là delle sue aree di influenza con roghi e interdetti. Infatti la ros solis è cosa d’oltralpe, di terre nordiche e fredde. Terre protestanti.
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Heinrich Khunrath, Medulla destillatoria, Leipzig, 1594 |
Negli stessi anni nell’Inghilterra elisabettiana regna un clima ben più disteso e diversa graziosa liberalità: la ros solis, cambia nome, ora si chiama Rosa Solis (in latino, non più rugiada ma “rosa del sole”), e diventa l’ingrediente abituale di cordiali, idromeli e vini ippocratici prodotti più scopertamente per il piacere della gargarozzo: “Prendi un gallone di erba Rosa-Solis raccolta in Luglio, [...] aggiungi mezzo pound di datteri, di cannella, zenzero e garofani un oncia di ognuno, grani [Kermes] una mezz’oncia, di zucchero un pound e mezzo, quattro pugni di petali di rosa rossa freschi o secchi, immergi il tutto in un gallone di buona aqua composita [acquavite] e sigilla con la cera per 20 giorni, agita ogni due giorni. [...] Se vi si aggiungono 2 o 3 grani di ambra grigia e muschio, avrà un piacevole profumo. Alcuni vi aggiungono benzoino, corallo, perle finemente polverizzati e foglie d’oro” (Sir Hugh Plat, Delightes for Ladies, 1602). Non per tutti, evidentemente.
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Basilius Besler, Hortus Eystettensis, 1613 |
In Italia è Venezia, capitale europea – seppur in declino – dell’editoria e del commercio di spezie e preparati, il principale baluardo delle pratiche alchemiche. Nel 1667 la Spezieria allo Struzzo alle Mercerie di Antonio de Sgobbis pubblica il Nuovo, et universale theatro farmaceutico, una farmacopea informatissima di tutta la letteratura medico-farmaceutica contemporanea, che ci dà un’idea di come veniva condotta un’illustre officina farmaceutica seicentesca. L’assortimento di queste botteghe aveva qualcosa di impressionante per quantità e qualità: spezie esotiche ed erbe comuni, minerali, terre, resine e cere, scorpioni, mumia (parti di cadaveri), sangue (di uomo “giovane e sano”), serpenti, formiche, rospi. Un repertorio vasto e vario di materiali eterogenei collezionati all’insegna dell’“universalità”, da combinarsi e trasmutarsi secondo regole ove superstizione e scienza nuova si compenetrano. Un apparato che associeremo più volentieri all’immagine classica della strega china sul suo calderone piuttosto che a quella di uno stimato farmacista.
Nella farmacopea di Sgobbis non poteva mancare la Rosa solis, Rorissolis, o Rosa solis altramente, Tolta dalla Farmacopeia di Londra.
“Ros Solis o Rorella, Rose rosse, Angelica, Noce moscata, Seme d’Aniso Coriandro [coriandolo], Galanga, Zenzero, Gariofili [chiodi di garofano], Cardamomo maggiore e minore, Zeodaria, Calamo Aromatico, Santali Citrini e Rossi [sandalo], Cinnamomo, Acqua di Vite ottima, Sugo o Liquore di Rorella raccolto ne’ giorni calidissimi dalle foglie che sudano, Acqua di tutto Cedro. Tutto stia in Infusione per giorni otto in Vasi di vetro ben chiusi; eccettuati li Santali; poi si distilli, nel Liquor distillato si mettan li Santali Rossi & Citrini minutissimamente tagliati, per il spazio di Giorni 20. Poi si feltra il Liquore, quale vien edulcorato con Zuccaro dissoluto con l’Acqua di Rose & Fiori di Cedro quanto basta & cotto in consistenza di Giulapio.”
Il Settecento mette fine a questa corta ma intensa storia. Il processo accellerato di secolarizzazione si espande su costumi ed abitudini e pure l’alimentazione si laicizza. I liquori si considerano sempre più apertamente un mezzo di piacere e sempre meno una medicina. Dalle ricette dei cordiali sparisce definitivamente la ros solis, pianta dal valore più simbolico che curativo e certamente non gradevole al gusto. Non ne rimane che il nome: per rossoli o rosolio si intendono ora liquori alcolici aromatici (con o senza le rose) addolciti con abbondante zucchero. A metà secolo il più pregiato è riconosciuto da tutti quello di Torino. E qua si chiude il cerchio della storia.
E il rosolio siciliano? In Sicilia, dove la drosera non cresce, si produceva da sempre il dolcissimo e rosato giulebbe, – dall’arabo julāb, composto dalle parole persiane ghoul, rosa, e ab, acqua –, quello, insomma, a cui la nostra immaginazione corre quando pensiamo al rosolio. Invenzione degli arabi amanti dello zucchero e delle rose, gli stessi a cui si deve l’invenzione della distillazione. Dalle fonti arabe medioevali la preparazione dello julāb prevedeva la macerazione in acqua di petali di rosa insieme ad altre sostanze medicinali (aloe, zafferano, muschio, canfora, ecc...), e la sua successiva raccolta tramite una rudimentale distillazione in alambicco (al-inbīq). A questo punto la faccenda si fa più chiara. Il rosolio è l’arabo giulebbe travestito da rossolis.
La cucina è alchimia, vero. Se possedete un alambicco potete provare a confezionare l’autentico rossolis. Non so però rispondere alla domanda se sia meglio eliminare le mosche appiccicate alla pianta oppure no. Altrimenti, se siete di altro umore, con del rosolio già pronto, potete cimentarvi nella ricetta futurista dei Garofani allo spiedo di Marinetti: “Lunghi snelli cilindri di sfogliata. Infilarvi su ciascuno quattro garofani: bianco, rosa, rosso, porpora, rosolati nel rosolio freddo o nel Roob Coccola di Zara. Mangiandoli pensate al fu stile floreale”.